Era una giornata di freddo e sole di inizio anno. Le feste erano passate da poco e nel loro strascico si insinuava una insolita incertezza destinata a trasformarsi, nei mesi a venire, in una nuova difficoltosa realtà. Le misure restrittive e le chiusure erano ancora ipotesi. Quel giorno noi raggiungevamo il centro commerciale.

Il parcheggio deserto incorniciava la desolazione tipica delle zone industriali. Fra serrande abbassate e porte chiuse, l’unico negozio sopravvissuto si esibiva stanco attraverso una vetrina spoglia. Passammo davanti al negozio aperto e a quelli chiusi, lungo tutto il perimetro, fino a trovare una porta a vetri socchiusa e dietro di essa una serranda non del tutto abbassata. Strisciando là sotto fra sporcizia, volantini e vetri rotti, iniziò la nostra giornata al centro commerciale. Gli scaffali vuoti del supermercato e i carrelli abbandonati in disordine li avevamo già visti in tanti film e c’era da aspettarsi, senza troppa originalità, di vedere uno zombie sbucare fra una corsia e l’altra.


Invece no, lì dentro c’era qualcun altro. Zitti e fermi, ascoltammo rumore di vetri rotti, echi metallici, rimbombo di lamiere. Risate e voci tipiche di ragazzini che hanno ancora la voce da bambine. Il silenzio che di solito avvolge le esplorazioni questa volta non sarebbe stato con noi, ma non si può pretendere silenzio in un centro commerciale, anche se abbandonato.

L’incontro è avvenuto dove approdavano immobili le scale mobili, al piano superiore. Ce li siamo trovati davanti: noi con le macchine fotografiche, loro con le spranghe di ferro, noi in due e loro otto o nove. Erano un bel gruppetto variegato, con le facce da Goonies o Stranger Things, c’era quello un po’ più alto, quello cicciottello, quello con gli occhiali. Erano lì che si divertivano a spaccare tutto, naturalmente, ed erano perfino un po’ sudaticci.


“Ci servono per difesa, perché non sappiamo chi possiamo incontrare qui dentro” disse quello furbetto. Per un momento ho provato a pensare a quei teneri diavoletti che prendevano a sprangate qualcuno, ma non ci sono riuscita. Gli ho chiesto se ci fossero cose belle da fotografare, e mi hanno guardato strano. Giustamente in effetti. Loro entravano ed uscivano direttamente da quel piano, ci hanno detto, era tutto spalancato.

E così abbiamo fatto noi alla fine, senza dover più strisciare come bisce fra sporcizia e vetri rotti. Ci siamo lasciati con un tacito accordo di non belligeranza: noi a fotografare, loro a cercare qualcos’altro da colpire. Fra le foto che ho fatto quel giorno mi sarebbe piaciuto farne una anche a loro.
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