“Nido del cuculo” nel gergo statunitense è sinonimo di manicomio. L’ho scoperto da poco, su Wikipedia. Pensavo che il titolo del film fosse una metafora, un riferimento letterario che non conoscevo. È un bel nome per qualcosa che releghiamo nel mondo degli incubi. Un nido evoca protezione, sicurezza, affetto, calore. Il cuculo è un simpatico uccellino. Chissà da dove arriva l’accostamento ai manicomi. Chissà cos’erano poi, davvero, i manicomi.
Al manicomio ci siamo stati tutti, ci siamo entrati attraverso lo schermo di un cinema, il monitor di un televisore, abbiamo gironzolato fra i pazzi e le loro urla, abbiamo visto qualcuno di loro subire l’elettroshock o, peggio, quell’intervento agghiacciante, la lobotomia.
Ci siamo affacciati per pochi minuti, il tempo di una scena, di qualche inquadratura, nella stanza per l’isolamento: quella con le pareti imbottite e la porta spessa, con una finestrella che ogni tanto inquadrava per pochi attimi lo sguardo dell’infermiere.

Visitare un ex manicomio o un edificio che un tempo fu un ospedale psichiatrico gestito da suore è come scavalcare schermi e monitor portandosi dietro tutto ciò che sappiamo, o crediamo di sapere, su quei luoghi. Ci si porta dietro un bagaglio pesante di suggestioni e emozioni. È un’esperienza forte e in un certo modo spirituale.

Anni fa ho visitato un ex manicomio, ora abbandonato. Era un complesso di tanti edifici distribuiti a ventaglio intorno a una chiesetta, tutto all’interno di un parco enorme.
Ho trovato letti vuoti e materassi ammassati, stanzoni spogli, pile di piatti, e un lavandino divelto che qualcuno non ha avuto la forza di lanciare contro la finestra per scappare, imitando Jack Nicholson.

Ho varcato soglie che davano su un mare di carta, fogli che invadevano anche i corridoi, fogli che riportavano la lista delle cure effettuate ai pazienti. Fra le cure ce n’era una che si ripeteva più e più volte, scritta così “fatto insulina”. Possibile che ci fossero tanti diabetici? No, l’insulinoterapia era un trattamento psichiatrico usato in alternativa all’elettroshock: ideato dal neurologo Manfred Sakel, serviva a far entrare il paziente in coma controllato. Li facevano entrare in coma, per farli stare buoni.

In questa struttura veniva praticato anche l’elettroshock e si racconta che da qualche parte, in uno di quei tanti edifici diroccati, ci sia ancora la saletta con l’attrezzatura.
C’erano gli edifici per le donne, per gli uomini, separati a seconda della loro condizione più o meno grave, più o meno curabile. C’era anche il reparto bambini e a questo i film non ci hanno preparato. I bambini riusciamo a immaginarli al massimo in un orfanotrofio, ma in un manicomio no, non ci si può pensare.

Sensazioni simili le ho provate qualche tempo dopo, in un ospedale psichiatrico situato nei pressi di un convento suore. Preghiera e malattia, solitudini cercate e imposte che convivono per forza. Ho camminato sotto gli archi del chiostro fra fantasmi di suore che passeggiavano in coppia.

Ancora una volta ho attraversato grandi stanze vuote, sbirciando sui fogli sparsi a terra.

Una penna stilografica e una calligrafia che appartiene a un altro tempo, avevano annotato le spese relative a un carro funebre. La funzione si sarebbe svolta nella chiesa adiacente, abbandonata anch’essa.

Qual è la natura del fascino oscuro che questi luoghi esercitano su di me, su molte altre persone come me? Forse la consapevolezza che le loro vere storie, che sono tante tantissime, resteranno segregate e segrete per sempre.