Nel giardino di un mio compagno di scuola c’era un salice piangente. Lo ricordo grandissimo, ma le cose sono sempre grandi nei ricordi di quando si era piccoli. Si giocava tutti assieme a correre fra quei suoi rametti d’argento che scendevano giù come piccole liane, e quella era una giungla e noi eravamo tarzan, tutti quanti. Il salice piangente è il mio albero preferito da allora, perché ci puoi andare dentro e lui ti avvolge, ti abbraccia, ti accoglie sempre. Ho un ricordo felice di un albero dal nome triste e questo rende tutto malinconico. E mi piace ancora di più.
Sono un vecchio ricordo e considerazioni  che riaffiorano proprio in questi giorni, perché le coincidenze della vita mi hanno portato a ripensare a questo albero gentile.
Il primo gennaio passeggiavo lungo un argine alto e ho notato un salice piangente più giù, chino sulla sponda del corso d’acqua e su un grosso macigno che non sembrava essere lì per caso. Scesa a vedere ho scoperto che, dalla parte rivolta all’acqua, il blocco di pietra riportava parole tristi in memoria di Francesco.

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Non so chi fosse, immagino un bambino. Forse giocava come facevo io da piccola fra le liane sottili che non sono riuscite a dargli appiglio, una volta scivolato in acqua. I bambini sono tristi, e un po’ lo sono anch’io. Ho lasciato il salice, il masso e il ricordo di Francesco quando il sole stava calando.
Un paio di sere prima avevo giusto cominciato a leggere una storia di salici inquietanti e di un corso d’acqua ben più grande. Ora lo leggerò più lentamente, per stare più a lungo sotto le fronde del mio albero preferito.