L’ispirazione non manca, a volte però manca la storia nuova, inaspettata, quella che non pensavi avresti inventato mai. Per lasciare decidere alla sorte quale sarà la tua prossima storia basta lanciare un dado, anzi… 9 dadi. Sono i Rory’s Story Cubes: cercavo qualcosa del genere dai tempi in cui partecipai a uno spassoso concorso letterario in cui dovevi scrivere un pezzo di storia per volta, ogni volta che settimanalmente veniva estratta una carta. Non appena ho visto questa adorabile confezione di simpatici dadi me ne sono innamorata. Si può giocare da soli o in compagnia, davvero non ci sono regole ed è un modo creativo di passare il tempo, anche sotto l’ombrellone come è successo a me per la storiella bizzarra che troverete nei commenti. Io ho lanciato i dadi e poi li ho ordinati nel modo che vedete per scrivere la mia storia.
Vi va di provare? Le figure da utilizzare sono quelle che vedete ma potete scegliere l’ordine che volete. Scrivete la vostra storia nei commenti, magari specificando quale dado entra in scena in un determinato momento. L’unica regola è che li dovete utilizzare tutti e 9! Buona creazione, buona scrittura e buona lettura! (postate le vostre storie nei commenti, comincio io con la mia)
12 giugno 2019 at 16:11
LA TORRE DI LUCE
Molto tempo fa, in un posto sperduto del mondo(1), c’era un villaggio. I suoi abitanti erano cacciatori, guerrieri, sciamani, discendenti di una grande tribù di spiriti liberi come il vento.
Un tempo erano stati nomadi senza radici e le loro dimore (2) erano state sempre senza fondamenta. Lo erano rimaste anche dopo che la tribù si fu imbattuta nella Torre (3). Quando successe, gli sciamani dissero di accamparsi lì, tutto intorno. Prima o poi sarebbero ripartiti, quando fosse venuto il momento.
La Torre era altissima, quasi non si riusciva a vederne la sommità, saliva nel cielo, più in alto delle nuvole. Ogni anno poi, la notte del primo novilunio d’estate, la Torre emetteva un potentissimo fascio di luce (4) che saliva su verso l’infinito, squarciando la notte.
Succedeva ogni estate, da tanto tantissimo tempo…tanto che la tribù aveva perso il conto (5) dei noviluni rischiarati dal fascio di luce. Avevano perso il conto anche del tempo passato da quando il primo giovane coraggioso aveva tentato, senza riuscirci, l’impresa di arrampicarsi fin lassù, una sera del primo novilunio d’estate.
Gli sciamani avevano interpellato il fato lanciando le pietre della sorte (6): esse rivelarono che il momento di ripartire sarebbe arrivato quando si fosse trovato il prescelto. Il prescelto doveva essere il migliore, colui in grado di emergere dal gregge (7) senza tornare mai a mescolarsi con esso.
Il prescelto, avevano annunciato gli sciamani, doveva essere colui che fosse riuscito nella grande arrampicata. Il prescelto avrebbe scalato la Torre, sarebbe arrivato in cima e dall’alto avrebbe visto il mondo e lo avrebbe compreso. Dall’alto avrebbe guardato dentro la Torre e avrebbe compreso. Poi sarebbe sceso, senza temere: nulla avrebbe parato la sua caduta (8), ma lui non sarebbe caduto.
Furono innumerevoli i noviluni d’estate in cui giovani coraggiosi tentarono l’impresa. Iniziavano l’arrampicata con caparbietà. Ogni volta però alcuni di loro cadevano, altri, stremati si fermavano per lunghi momenti aggrappati alla roccia prima di cominciare a scendere giù. Nessuno mai era riuscito ad arrivare fin lassù.
Passarono tante estati, tante da perdere il conto, tante da dimenticare quando tutto fosse iniziato. Ma la notte in cui un giovane riuscì finalmente a scalare la Torre, tutti la avrebbero ricordata e poi raccontata per innumerevoli altre estati. Il giovane si arrampicò, abile come una formica sul muro. Arrivato tanto in alto, tanto più su del chiarore dei falò, non lo si poteva vedere più. Però non cadde mai, e continuava a non cadere.
Lo videro quando la Torre emise il fascio di luce: videro la sua sagoma scura stagliarsi lì in alto, avvolta dal fascio luminoso. La sagoma scura sembrava farsi grande, le braccia alzate verso l’alto: il giovane sembrava voler salire ancora più su di dove già era arrivato. E così avvenne. Lo videro volare nel cielo, trasportato dal fascio di luce.
Il prescelto aveva visto troppo, compreso troppo, dissero gli sciamani. Non avrebbe potuto tornare a rivelare verità troppo grandi. Le entità superiori (9), dissero gli sciamani, lo avrebbero fatto diventare uno di loro.
Il giorno dopo la tribù si rimise in viaggio: abbandonarono la Torre e non la rividero più. Le entità superiori si erano prese il loro prescelto, ma avevano donato loro lo spirito dell’Uomo che Sale nel Cielo che avrebbe ascoltato le loro preghiere e guidato dall’alto i loro passi.
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12 giugno 2019 at 18:14
sei bravissima, ma questo già lo sapevo 🙂
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14 giugno 2019 at 13:33
Un mondo plastificato su una maglietta. Questo ero tutto quello che Tomahowke sapeva del mondo fuori dalla riserva.
Lo zio, l’unico parente rimastogli, non gli aveva mai detto molto se non che il mondo fuori da lì era pericolosissimo. Ed era così pericoloso perché non si poteva vedere l’orizzonte: al posto delle loro piccole tende, solo enormi palazzi e torri che non consentivano nemmeno all’indiano con la vista più acuta di vedere lontano. E se non potevi vedere come trovavi il cibo, come scansavi i pericoli? Molto meglio restare al sicuro nella loro piccola riserva personale. Erano solo loro due e non serviva altro.
Un giorno purtroppo, lo zio morì. Succede sempre così con i mentori delle storie: non possono fare a meno di morire, mannaggia a loro! Il piccolo Tomahowke ormai non era più tanto piccolo. Era così alto da riuscire a cambiare le lampadine dei lampadari più alti. Certo, lui non sapeva cosa fossero i lampadari o quanto fossero alti, ma voi sono sicura di sì e quindi capirete quanto alto era. Mentre, pensieroso e cupo, stava accanto al corpo dello zio, gli balenò un’idea: se anche nella riserva così sicura si poteva morire, allora tanto valeva affrontare il mondo esterno e vedere quali pericoli nascondesse.
Mise la sua maglia con sopra il mondo e partì a passo svelto senza mai voltarsi indietro. Se l’avesse fatto, avrebbe visto la tenda dove aveva vissuto tutta una vita dissolversi nel nulla.
Quanto era grande il mondo! Camminava da tantissimo e non aveva ancora visto nemmeno una delle torri che lo zio gli aveva descritto. Poteva vedere davanti a sé per chilometri e chilometri. Faceva caldo, l’aria tremolava e sentiva un rumore fiuscc-fiuscc. Si voltò in direzione del rumore e vide, a pochi passi di distanza, un signore che assomigliava tantissimo allo zio, solo che era vestito in un modo che non aveva mai visto prima. Aveva indosso una tuta con attaccata quella che sembrava essere una grandissima tenda che si gonfiava nel vento. Lo zio (lo chiameremo così per capirci meglio) sembrava essere spuntato dal nulla perché intorno a lui, a parte pochi passi che Tomahowke riconobbe come fatti di corsa, la sabbia era immacolata. Sembrava arrivato dall’alto.
Ma non era questa la cosa più strana.
Lo zio aveva in mano due oggetti: nella mano destra, una scatolina bianca a sei facce con sopra dei pallini. Nella mano sinistra delle stecche di legno con infilate delle perline colorate. Parevano quelle che lo zio gli aveva sempre raccomandato di non accettare mai dagli uomini più bianchi di loro.
Gli propose un gioco. Avrebbero tirato a turno la scatolina bianca, per tre volte. Chi avrebbe fatto il numero più alto, avrebbe vinto. Cosa avrebbe vinto? Ma, ovviamente, la pecora che era a fianco dello zio. Non l’avete vista arrivare con lui?
Tomahowke sapeva che gli spiriti lo stavano mettendo alla prova perché lui fosse degno del proprio animale guida. Certo, non avrebbe mai immaginato che potesse essere una pecora. Avrebbe preferito un falco, un bufalo, anche una cavalletta, ma ad animale guida donato non si guarda in bocca. Soprattutto se pare avere dei denti robusti come quelli che gli stava mostrando la pecora.
Tomahowke tirò per primo. A ogni tiro, lo zio metteva insieme i numeri spostando le palline da una parte all’altra delle stecche di legno. All’ultimo tipo si accorse di essere in svantaggio, ma soprattutto, si rese conto di non aver chiesto cosa gli sarebbe successo se avesse perso. Lo zio sospirò facendo gonfiare la tenda attaccata alla schiena: se avesse perso, la pecora lo avrebbe divorato. Ma che domande sciocche faceva!
Ultimo lancio di Tomahowke: uscirono due pallini sulla scatola bianca. Aveva perso! Si sdraiò nella sabbia proprio mentre la pecora iniziava a masticargli il mondo plastificato sulla sua maglietta. Avrebbe dovuto dare retta allo zio.
GAME OVER
L’alieno si tolse il casco. Che gioco noioso gli avevano regalato. Una simulazione di realtà virtuale ti faceva vivere la vita di esseri a base di carbonio chiamati umani: sceglievi un’ambientazione, ti venivano caricate le informazioni socio-religiose di base e si poteva partire. “Indiani d’America” sembrava un buono scenario e invece, ad eccezione della parte con la pecora, lo aveva davvero deluso. E dire che le recensioni su questo videogioco erano così entusiaste! Forse “Atlantide” sarebbe stato più appassionante, sospirò prima di rimettersi a giocare.
Il mio racconto sotto effetto di sostanze lisergiche XD
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15 giugno 2019 at 10:08
Questa è davvero una storia che non ti aspetti! Complimenti 😃
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